Sergio Rubini e Rocco Papaleo
,

Consiglio cinematografico sulla disabilità intellettiva: “Il grande spirito”, con Sergio Rubini e Rocco Papaleo

Un nuovo consiglio cinematografico sulla disabilità intellettiva da parte di Anffas Torino. “Il grande spirito”, commedia del 2019 diretta e interpretata da Sergio Rubini. Con un grandissimo Rocco Papaleo, Ivana Lotito, Bianca Guaccero, Geno Diana e Totò Onnis. Adatto anche alla visione di bambini e ragazzi, il film ha ottenuto una candidatura ai Nastri d’Argento.

Molto interessante la figura di Renato, soprannominato “Cervo Nero”. Disabile intellettivo in balia del mondo e del cugino che, dopo avergli sottratto l’alloggio dei genitori, vuole farlo ricoverare in una struttura per sfrattarlo anche dal ripostiglio sul terrazzo del palazzo in cui vive. E’ la figura centrale del film, protagonista dello scambio più divertente e significativo.

Renato: Lo sai che cosa ha detto Toro Seduto agli yankee?! Quando i fiumi saranno asciutti e gli animali estinti, capirete che non si può mangiare il denaro!
Tonino: Tu t’ha dice a Toro Seduto ca n’ha capisce nu cazz’!

La recensione di Paolo Casella su www.mymovies.it

Tonino è un ladruncolo sempre in cerca del grande colpo di fortuna. Che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno strano personaggio. Renato, che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee.

Renato, come sillaba sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo, che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà un’intesa frutto non solo dell’emarginazione. Ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute.

Le idee di Sergio Rubini

Che Rubini, alla sua 14esima regia, abbia le idee chiare si capisce da due scelte iniziali.

La prima è quella di far precedere la narrazione dalle immagini della fabbrica dell’Ilva, con le sue fornaci e le sue ciminiere fumanti. Mescolandole alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero. Inferno e praterie celesti, distruzione e devozione, peccato e redenzione.

La seconda scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale. Tutta la parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e rovinosi schianti a terra. Quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare tarantino.

Tonino e Renato

Tonino e Renato sono l’uno l'”uomo del destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore. Quella luce che lotta contro il buio circostante: la fotografia di Michele D’Attanasio è intenzionalmente livida e fosca, la scenografia di Luca Gobbi è lurida e monocromatica.

Le musiche di Ludovico Einaudi sottolineano ogni passaggio (a volte troppo platealmente) e la regia di Rubini passa dalle lunghe scene di dialoghi (ben scritti da lui stesso insieme a Carla Cavalluzzi e Angelo Pasquini) dal forte impianto teatrale, a sequenze movimentate di fuga, caccia all’uomo e colluttazioni violente, senza risparmiarci l’orrore e il disgusto.

Su tutto però dominano l’afflato poetico stralunato e il realismo magico che sono cifre distintive del suo cinema sempre in bilico fra materia e spirito, fra concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile. Il grande spirito è dunque una storia di miseria e nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano nervosa.

La questione dell’Ilva resta saggiamente sullo sfondo, ma permea – come un veleno silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia (mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato.